Si accende la polemica sulla revisione delle pensioni di reversibilità, contemplata dal Disegno di legge di contrasto alla povertà.
A lanciare l’allarme è lo Spi-Cgil, spiegando che interpretare le pensioni di reversibilità come una prestazione assistenziale e pertanto allegarle all’Isee possa limitarne fortemente il numero un domani, consentendone l’erogazione solo a chi abbia un reddito molto basso.
Al momento la pensione di reversibilità annovera dei limiti, dovuti però principalmente al numero dei familiari e al suo ammontare: è pari al 60% della pensione del familiare deceduto se va solo al coniuge, all’80% se c’è anche un figlio e al 100% se ci sono due o più figli. Inoltre la pensione è tagliata del 25% se il reddito è superiore a 1.500 euro mensili (tre volte la pensione minima), del 40% se supera 2000 euro (4 volte), e del 50% se supera i 2.500.
Ma con il ddl approvato dal Consiglio dei ministri alla fine di gennaio cambia tutto: infatti si prevede una “razionalizzazione delle prestazioni di natura assistenziale, nonché di altre prestazioni anche di natura previdenziale, sottoposte alla prova dei mezzi”. Dunque a giustificare l’erogazione delle pensioni di reversibilità non saranno più i contributi versati durante tutta la vita lavorativa da parte del lavoratore che avrebbe avuto diritto all’assegno se non fosse morto prematuramente, ma lo stato di bisogno dei familiari.
Due settimane addietro però nel commentare il provvedimento Stefano Sacchi, commissario straordinario Isfol ed ex consulente del ministero del Lavoro, ha dichiarato che “non si terrà conto della componente patrimoniale dell’Isee”, tuttavia solo di quella reddituale. Mentre nel pomeriggio di ieri fonti di Palazzo Chigi hanno ribadito che le nuove norme si applicano solo alle pensioni future, non a quelle in essere.